Oggi sempre più imprese adottano una serie di comportamenti fuorvianti, che rientrano nel fenomeno del “greenwashing”, volti ad attirare i consumatori attenti alla sostenibilità e a convincerli in tal modo a scegliere di acquistare un prodotto o servizio presso l’azienda stessa. Si tratta di una strategia di marketing scorretta e sanzionata, ampiamente diffusa nel territorio nazionale, che si traduce spesso nella mera enfatizzazione di numeri e percentuali al solo fine di costruire una immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Un fenomeno frequente, più diffuso di quanto si possa pensare, è che l’imprenditore, seppur non intenzionalmente, metta in atto una serie di azioni che sfociano di fatto nel greenwashing come, ad esempio, la diffusione d’informazioni non completamente vere sul LCG dei prodotti, dovuta a una mancata ricerca e approfondimento sulla loro origine. Il fatto che l’imprenditore agisca in modo inconsapevole non ne giustifica in alcun modo la gravità in quanto contribuisce comunque ad alimentare il fenomeno.
I danni del greenwashing
Quali sono i danni del greenwashing? Innanzitutto è un “green” esclusivamente “di facciata”, che vuole avere un impatto in termini di brand reputation, senza costituire di fatto parte integrante del sistema di business, né un insieme di valori in cui l’azienda crede davvero. É una pratica scorretta, in quanto ingannevole, che se spinta entro certi limiti, potremmo definire una “trappola”.
Ma il danno in assoluto più grande è un altro. Il greenwashing infatti svia l’attenzione dei consumatori verso aziende che implementano seriamente la sostenibilità nell’intero modello di gestione, e per molte delle quali la sostenibilità costituisce il core business, nonché un fattore critico di successo sul mercato. Dal momento che la sostenibilità e l’impegno delle aziende in termini di impatto ambientale è un tema caldissimo, le aziende del “falso green”, indipendentemente dalla dimensione dell’attività, cercano un’approvazione mediante l’esclusiva erogazione di un prodotto vagamente più “ecofriendly” al solo fine di ricorrere disperatamente discutibili etichette green per “pulirsi” la coscienza. Il rischio generale quindi è che si generi sfiducia nei confronti della sostenibilità aziendale e spingere i consumatori ad allontanarsi da un approccio green.
Il greenwashing è una pratica scorretta e sanzionata dall’antitrust, che gode di una buona capacità d’intervento in Italia, ma bisogna saperla riconoscere. Vediamo come.
Come difendersi dal greenwashing?
Per il consumatore il primo alleato è la diffusione della consapevolezza del fenomeno, ma perchè vi si arrivi a questo, bisogna avere riguardo di una serie di accortezze, che costituiscono dei validi punti di partenza per accertare la veridicità dell’anima green di un’azienda:
– Controllare la natura e la credibilità delle certificazioni ambientali con i relativi criteri di assegnazione, e il livello di trasparenza e di indipendenza dell’ente certificatore;
– Esaminare il livello di dettaglio delle informazioni: se le informazioni rilasciate risultano eccessivamente vaghe e dispersive, potrebbe essere un potenziale segnale negativo;
– Affidarsi alla tecnologia: esiste sul mercato una vasta selezione di app che permettono di tracciare l’autenticità ecofriendly dei prodotti;
– Guardare con occhio critico l’intero sistema di comunicazione dell’azienda, non soffermandosi sulle affermazioni di facciata, ma approfondendo numeri, dettagli, e criteri;
– Il livello di centralità della sostenibilità in quell’azienda: il green riguarda qualche prodotto in modo vago, generico e poco obiettivo e la comunicazione viene spinta al massimo a livello di brand awareness? Molto probabile che ci si trovi davanti a un caso di greenwashing;
-Diffondere consapevolezza, cercare partecipazione da parte di associazioni e abilitare i consumatori ad un ruolo attivo;
-Puntare sulla formazione, più che sulla informazione.
L’elevato numero di informazioni oggi a disposizione, che coinvolge sia la dimensione offline che online, da un lato rappresenta un serio ostacolo al greenwashing, in quanto il consumatore fa mediamente più fatica a distinguere fonti e informazioni credibili, ma dall’altro un’opportunità di sviluppare l’abilità di distinguere una comunicazione sfalsata ed eccessivamente “colorata” (in questo caso di un “falso verde”), da una informazione seria, trasparente e di qualità.
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